martedì 27 gennaio 2015

GIORNATA DELLA MEMORIA 2015


Da Corriere della Sera del 27/01/15
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 CON IL DIARIO DI ANNE FRANK LA MEMORIA VINCE SULL’OBLIO.

 La memoria è preziosa ma fragile. L’oblio, invece, è puntuale, spietato. Lo scrittore francese Patrick Modiano si è sentito chiedere, giustamente, se il Nobel per la letteratura fosse il riconoscimento alla sua incomparabile «arte della memoria», specie del periodo dell’occupazione tedesca. Modiano, famiglia ebraica di origine italiana, ha risposto sicuro che il tema di fondo dei suoi libri non è la memoria. È l’oblio. Ovvero quello «strato che ricopre tutto ciò che è vissuto» di una patina grigia in cui colpe e meriti finiscono per essere indistinguibili. Vittime e carnefici sono posti sullo stesso piano. Il bene si confonde con il male. E nel male c’è persino più romanzo. La sua forza d’attrazione e seduzione è potente, persino invincibile.

La memoria crea squarci di verità e di giustizia. Ma la luce è fioca. Ci ricordiamo il nome dell’aguzzino Eichmann non i nomi delle sue vittime. Sappiamo tutto di Kappler e di Priebke, assai meno dei martiri delle Ardeatine. I giusti furono tanti ma in gran parte sono rimasti anonimi, senza volto pubblico. I nazisti, prima di avviare gli ebrei alle camere a gas, li spogliarono di tutto. Con scrupolosità scientifica. Non solo dei beni personali, dei vestiti, persino delle protesi dentarie, ma anche dell’identità. Numerarono i deportati come fossero pezzi, non persone. Scarti umani pronti a essere ammassati gli uni sugli altri come materiale inorganico. Rifiuti.

Qualche volta la Storia appare involontariamente complice dei suoi protagonisti peggiori. Si occupa fatalmente più dei colpevoli, ne costruisce un profilo di malvagità che inevitabilmente sprigiona un fascino cupo e seduttivo. Relega le vittime dietro le quinte degli avvenimenti in una rispettosa seppur anonima irrilevanza. Le schiaccia inconsapevolmente nell’indistinto, nella perdita totale di quella identità che era obiettivo ultimo dei loro carnefici.

Per fortuna dell’umanità abbiamo avuto Anne Frank, il suo diario, i suoi scritti, la sua figura limpida. Non solo lei, ma soprattutto tanti altri che ne hanno parlato dopo. Lei, purtroppo, ha scritto prima. Possiamo però immaginare che cosa avrebbe potuto scrivere se ci fosse stato un dopo. Ma a distanza di settant’anni, l’adolescente tedesca, poi privata della sua nazionalità, dunque apolide, nascosta per quasi due anni nell’alloggio segreto di Prinsengracht 263 ad Amsterdam, è ancora presente nel nostro immaginario collettivo, nella nostra coscienza individuale. Come una figlia, come una sorella. Siede accanto a noi e ci intrattiene con la sua voglia di vivere, incontenibile anche nei particolari più insignificanti della quotidianità nel suo nascondiglio.

Anne ascoltò alla radio, nella primavera del 1944, il discorso di un membro del governo olandese in esilio. Il ministro dell’Educazione Bolkestein esortava la popolazione a non disperdere le testimonianze e i documenti della sofferenza subita durante l’occupazione nazista. Solo così, a guerra finita, la verità dei fatti sarebbe potuta emergere. Intatta e monito per le future generazioni. Fu in quel momento che Anne cominciò a pensare e a scrivere il suo diario, nella costante preoccupazione di renderlo comprensibile ai futuri lettori. Lo ricopiò, lo migliorò, lo rese più fluido, lo innervò con una sorta di trama. Ed ebbe la paura dell’oblio che sarebbe sceso — riecco Modiano — al pari di un velo grigio, una polvere sottile, sulle vite dei sommersi, dei suoi cari, degli altri componenti dell’alloggio segreto. Come la cenere uscita dai camini di Auschwitz e degli altri campi di stermino: si adagia silenziosa con il suo carico di morte sulle quiete coltivazioni circostanti, ma è invisibile già dal primo raccolto, disperso dopo pochi giorni il dolciastro odore della morte. La terra ne perde subito la memoria. «La sua cenere è muta e dispersa nel vento» ricordò poi Primo Levi in una poesia dedicata alla «fanciulla d’Olanda murata fra quattro mura, che pure scrisse la giovinezza senza domani».

I diari di Anne sfuggirono all’occhio attento e gelido del sottufficiale delle SS Karl Josef Silberbauer, che scoprì, al di là degli schedari della casa olandese, il nascondiglio di Anne, il 4 agosto 1944. E che per fortuna non ebbe notorietà storica superiore alle sue vittime. I diari furono custoditi come reliquie e consegnati, a guerra conclusa, al padre di Anne, il signor Otto Frank, scampato al lager, che ne curò la pubblicazione, omettendone qualche parte più strettamente privata. Nel 1998, vennero ritrovati alcuni fogli manoscritti con qualche critica alla madre. Il padre forse difendeva un minimo di intimità della propria famiglia e probabilmente in questo modo ne preservava l’unità spezzata violentemente dalla Shoah. Riuniva ancora una volta la sua famiglia al riparo degli sguardi estranei. Come se volesse ricostruire l’atmosfera dell’alloggio segreto nel quale gli otto occupanti vissero nel quotidiano terrore di essere scoperti. Nella gioia di ritrovarsi insieme, di condividere non solo un destino, assai cupo, ma anche le piccole faccende di casa, i gesti più banali. Affetti, rivalità, gelosie. Sciocchezze.

La vita di Anne fu insopportabilmente breve. Ma l’eternità del suo diario ce la restituisce, a ogni lettura, nella sua bellezza adolescenziale. Con quel suo sorriso aperto alla vita. Rileggendola, ho pensato alla Vita è bella di Benigni e al padre che nasconde al figlio, fino all’ultimo, la tragedia della deportazione inventandosi un improbabile grande gioco. Perché, dopotutto, gli uomini sono buoni e la giustizia prima o poi trionfa. Ma è veramente così? Mi è tornato in mente anche Gyurka, l’adolescente suppergiù della stessa età di Anne — protagonista di Essere senza destino dell’ungherese, anche lui premio Nobel, Imre Kértesz – che non si arrende alla realtà e si aggrappa a ogni piccolo particolare o dettaglio che possa alimentare la sua incrollabile speranza di vita.

Anne non fu una persona senza destino perché ebbe il destino di rivivere nel suo diario, di raccontarci ogni giorno la sua testimonianza di vita. E di sconfiggere, scrivendo, i suoi carnefici e i ricorrenti miserabili tentativi negazionisti.

Il piano della Shoah prese corpo in riva al Wannsee, il lago vicino a Berlino, il 20 gennaio 1942, nella conferenza durante la quale i gerarchi nazisti decisero lo sterminio totale, la completa «pulizia etnica», del popolo ebraico. Nessuno poté immaginare allora che l’arma di difesa più potente dell’umanità assediata dall’odio e dall’ideologia totalitaria sarebbe stata l’innocuo diario di un’adolescente tedesca riparata con la famiglia ad Amsterdam e poi morta a Bergen-Belsen. La storia sarebbe stata diversa se il sottufficiale delle SS, il poco noto Silberbauer, avesse sequestrato e distrutto gli scritti di Anne. Così come la memoria della Shoah avrebbe faticato a imporsi alla forza dell’oblio se Primo Levi o Elie Wiesel — per citare solo alcuni dei grandi testimoni — non fossero tornati alle loro case. E non avessero deciso di raccontare la loro dolorosa esperienza. La nostra coscienza sarebbe più povera. La Storia pericolosamente incompleta. E ancora più deboli gli anticorpi della nostra civiltà contro l’insorgenza di nuove forme di razzismo, di intolleranza verso il diverso, di indifferenza per le persecuzioni, le ingiustizie, i soprusi perpetrati contro chi ha unicamente la colpa di esistere, di stare al mondo. Come Anne, che voleva vivere soltanto la sua giovinezza. Nulla di più. E tentò di viverla, nonostante tutto fino all’ultimo. Anche quando la ragione, al di qua di un filo spinato, non lasciava più alcuna speranza.

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